• Bambole e soldatini

    Ieri un mio amico di facebook ha condiviso questa filastrocca di Gianni Rodari

    Semplice.
    Dovrebbe essere altrettanto efficace.

    Mi stupisco sempre quando nel periodo natalizio si fanno una serie di articoli sui giocattoli “di genere”.
    Perché alle bambine si regalano bambolotti che le educano a fare le madri?
    Perché alle bambine si regalano cucine che le educano a fare le casalinghe?
    Perché alle bambine si regalano Barbie e altre bambole che impongono loro un modello di bellezza?

    Tutto condivisibile, perché imporre a qualcuno un modello è oppressione.

    Ma con i bambini a cui si regalano caterve di soldatini come la mettiamo?
    Non pensiamo davvero che le guerre fatte per gioco creino in loro un’attitudine alla guerra (reale o simbolica) una volta diventati adulti?

    E allora la soluzione sarebbe che anche le bimbe giocassero ai soldatini, correndo il rischio di diventare virili, ma comunque contribuendo al sostegno di questa visione coloniale della vita?

    Domina o sarai dominato?

    A mio avviso vedo molte più implicazioni negative nell’educare alla guerra piuttosto che alla maternità.

    Come ci ricorda Hannah Arendt “libertà non significa rendersi massimamente indipendente da tutto e da tutti, bensì che le creature possano partecipare al gioco del mondo con nuove pratiche, poiché con la loro nascita si è dato inizio a qualcosa si nuovo”.

    Forse la percezione di sé a partire dalla nascita, con una valorizzazione simbolica e reale della maternità e del nascere in relazione, potrebbe indurci a uno scambio incentrato sulla natività e sulla vitalità che ci accomuna.

    Uno scambio capace di esaltare ciò che ci unisce e non quello che separa e che appunto perché separa è in grado di attivare guerre e relative giustificazioni.

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  • Inventiamo il mondo

    Da oggi pomeriggio e fino a domenica sera Torino ospiterà un convegno internazionale che già dal titolo Culture indigene di pace. Donne e uomini oltre il conflitto apre alla conoscenza di un mondo in cui la gestione del conflitto trova soluzioni alternative alla violenza

    http://www.associazionelaima.it/

    Una delle organizzatrici è una mia cara amica e mi ha chiesto di partecipare portando i saluti di una delle istituzioni che hanno patrocinato il convegno. E’ la prima volta che faccio un’esperienza del genere, ossia parlare per conto delle istituzioni. Non volendo essere noiosa e decidendo di rispettare rigorosamente il termine dei dieci minuti ho preparato questo testo che voglio condividere con voi …

    Buongiorno a tutte e a tutti
    anch’io
    vi porto i saluti della Commissione per la realizzazione delle Pari Opportunità
    Donna-Uomo della Regione Piemonte.
    Ringrazio
    l’associazione Laima – Morena, Sarah e Monica – per averci chiesto di essere
    presenti in questa occasione che voglio sottolinearlo è un convegno
    internazionale organizzato interamente dal basso. Ho scelto quindi di
    condividere con voi queste riflessioni che mi pare vadano nella stessa
    direzione scelta dalle organizzatrici e realizzata da tutti e tutte noi qui
    presenti.
             Vi voglio prima dire quali sono a mio
    avviso i motivi che rendono fondamentale la presenza della Commissione: sempre
    più spesso alla televisione e sui giornali ci dicono che “la Democrazia è in
    pericolo”. Al concetto di democrazia nel nostro immaginario viene legato quello
    di libertà. Perché il contrario della democrazia è la dittatura sistema in cui
    le libertà sono per definizione annullate. Ma di quale democrazia stiamo
    parlando? Recentemente ho letto un libro di una teologa svizzera Ina Preaotirus
    – che mi fa piacere citare in questa occasione – per la quale non è
    trascurabile che la concezione occidentale di libertà sia nata in una società
    che non riconosceva la piena appartenenza al genere umano a molte categorie di
    persone, tra cui donne, schiave e schiavi. L’antica Grecia nel momento in cui
    ha stabilito la gerarchia dei rapporti tra sfere superiori, libere, e sfere
    inferiori, dipendenti, ha posto le fondamenta per un’interpretazione illusoria
    della libertà che tuttora ci accompagna producendo effetti distorti nella
    nostra società e nel rapporto tra uomini e donne. La definizione di superiore e
    inferiore nasconde l’origine di un vittorioso e di un vinto. In questo senso
    l’uguaglianza è quanto si offre ai colonizzati sul piano delle leggi e dei
    diritti. L’uguaglianza è il principio in base al quale l’egemone continua a
    condizionare il non egemone come ha scritto negli anni 70 Carla Lonzi.
             Le commissioni Pari Opportunità sono
    state pensate come luoghi di democrazia per rimuovere gli ostacoli che di fatto
    costituiscono discriminazione diretta o indiretta nei confronti delle donne.
    Una delle funzioni della Commissione è la promozione di occasioni di confronto
    culturale sulla condizione femminile e sull’immagine della donna, contribuendo
    alla elaborazione di comportamenti differenti. Se infatti c’è uno stare tra
    donne basato sulla tradizionale complicità e solidarietà femminile, sempre più
    frequenti sono le situazioni in cui le donne si trovano in un mondo che è stato
    disegnato dagli uomini e in cui la loro presenza non era prevista e rischia di
    non essere percepita come portatrice di una differenza in grado di creare un
    altro ordine di rapporti.
             Come si può organizzare una società in
    cui ogni persona sia al tempo stesso libera e dipendente, serva e sia servita,
    definisca e sia definita, agisca in molteplici processi di scambio? Ecco allora
    che questo convegno può essere l’occasione in cui tali pratiche vengono fatte
    conoscere aiutandoci a modificare il nostro immaginario legato al concetto di
    potere e di giustizia. Farsi giustizia è un’espressione che nella nostra
    società occidentale indica una ricerca di giustizia personale e privata, perciò
    riprovevole. La rivolta femminista, oltrepassando il confine pubblico/privato,
    ci esorta a cominciare ad agire nella realtà con criteri, misure, valori
    indipendenti da quelli dominanti. Cominciare a fare giustizia senza affidarsi a
    tribunali e leggi valorizza la propria autorità in quanto forza simbolica che
    può contrastare la paura del potere. La rivoluzione che conta è quella che
    avviene nell’immaginazione e da tale rivoluzione scaturiranno altri
    cambiamenti. Tutte le trasformazioni hanno in comune il fatto di avere inizio
    nell’immaginazione e nella speranza. Sperare è puntare sul futuro, sui propri
    desideri. Speranza significa che un altro mondo potrebbe essere possibile, non
    promesso, non garantito. La speranza richiede quindi azione: tutto può accadere
    e tutto dipende dal nostro agire o dalla nostra mancanza di azione. La speranza
    è un atto di sfida che abbraccia l’essenziale inconoscibilità del mondo, le
    rotture con il presente, le sorprese. È vero che negli ultimi decenni lo stato
    del mondo è peggiorato in modo drammatico se lo misuriamo sul piano materiale
    con la brutalità delle guerre, l’emergenza acqua e cibo e i feroci attacchi
    contro l’ambiente, ma abbiamo anche elaborato un enorme numero di attività
    immateriali – diritti, concetti, parole, pratiche – che rappresentano uno
    spazio vitale e gli strumenti con cui possiamo affrontare queste atrocità. La
    globalizzazione non è solo omologazione e accentramento del capitale da parte
    delle multinazionali, c’è una globalizzazione della comunicazione e delle idee
    che ne costituisce l’antitesi (Rebecca Solnit, Speranza nel buio. Guida per cambiare il mondo).
            
             Di conseguenza mi piace pensare a
    questo convegno come al catalizzatore che ci mostri le forme originali della
    concezione di potere esistenti nel mondo, diverse da quelle che ci hanno
    insegnato a scuola. Il capitalismo e il socialismo di stato non racchiudono
    tutte le possibilità di convivenza poiché le società indigene agiscono spesso
    modalità significativamente diverse per immaginare e amministrare i sistemi
    sociali ed economici oltre che per collegare la spiritualità e la natalità alla
    politica. La natalità esalta il simbolico della dipendenza e riporta al centro
    della convivenza l’ambiente domestico quale luogo primario di cura della vita a
    scapito del mercato e delle sue regole escludenti. L’essere partoriti ci segna
    per tutta la vita come esseri dipendenti, bisognosi dell’altra o dell’altro nei
    quali rimane collocata la nostra libertà. Libertà non significa più rendersi
    indipendenti da tutto e da tutti bensì che ogni persona possa partecipare al
    gioco del mondo con nuove pratiche poiché con la propria nascita si è dato
    inizio a qualcosa di nuovo. Al cuore di questo processo c’è la restituzione
    alle persone della loro capacità creativa e la riattivazione del loro
    potenziale di intervento diretto nel mondo. Le persone non sono più intese come
    consumatrici ma come produttrici di significato. La democrazia diventa quindi
    una forma politica in cui uomini e donne continuamente re-inventano il mondo
    grazie alla loro immaginazione, alle relazioni e alle pratiche che agiscono tra
    loro.
             A queste pratiche in cui il bisogno
    simbolico di autorità viene accordato all’amore per la libertà il movimento
    femminista italiano degli anni 70 ha dato il nome di politica del desiderio: le
    azioni diventano segni e insieme strumenti non soltanto di resistenza ma di
    libertà. Il desiderio che sa combinare la vita, continuamente ricontrattato con
    la realtà che ci circonda e che mira a un guadagno di essere. A un di più di
    essere, come dice Luisa Muraro. Il mio augurio per questi giorni quindi è
    quello di inventare tutti e tutte insieme il mondo in cui vogliamo vivere.
    Dipende da noi.  
    Ake Dama e Najin Lacong esponenti del popolo Moso. I Moso vivono in Cina e sono un esempio di società che non produce i conflitti e le violenze tra i sessi che il senso comune generalmente attribuisce alla “natura umana”.
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