• Beni Comuni (a proposito di alberi, città e ribellioni)

    L’altro giorno ho letto su internet questa lettera scritta da Piera Colonna, cittadina torinese.

    Al Sindaco di Torino Dr. Piero Fassino.

    Egregio Signor Sindaco,

    premesso che abito in Borgo San Paolo da quarantacinque anni, che ho
    portato mio figlio a giocare nel Giardino Artiglieri di Montagna da
    quando è stato aperto al pubblico nel 1973, che ho seguito il processo a
    Renato Curcio celebrato nelle sale della vecchia caserma, che ho
    frequentato la biblioteca istituita nelle stesse sale dopo il processo,
    che ho portato i miei cani nell’area apposita da quando è stata creata,
    che ho visto piantare al posto di alte acacie delle piccole querce che poi sono diventate grandi,
    che ho visto fare e disfare zolle erbose e subito dopo con un po’ di
    malumore recintare una parte del giardino ed abbattere alberi secola ri
    per fare un campo di calcio, che con molto disappunto ho visto abbattere
    dopo pochi anni questa struttura per erigerne un’altra molto più vasta e
    devastante e costosa, che ho visto centinaia di ragazzini correre su
    prati di plastica, che quando nevica vedo montagne di detriti di questa
    plastica gettati insieme alla neve spalata dai prati di plastica sui
    residui prati veri, che ho visto sorgere e demolire le baracche per gli
    operai e tecnici che costruivano la metropolitana, e infine che al loro
    posto quest’anno con un poì di sollievo ho visto mettere a dimora
    piantine nuove e giochi per bambini, premesso tutto questo, dicevo, ho
    trovato sul sito del Comune di Torino questa pagina
    http://www.comune.torino.it/comune vende, che dice che il giorno 30
    dicembre prossimo l’area sarà venduta con asta pubblica.

    Vorrei ricordarLe che le aree verdi
    appartengono a tutti i cittadini e sono inalienabili in quanto
    necessarie per il bene comune, lo stesso bene comune per il quale ha
    combattuto Suo Padre ed è morto Suo Nonno
    . Vorrei ricordarLe che
    un albero di cento anni è un monumento alla Vita e che è ridicolo
    pensare di sostituirlo con un alberello da vivaio e che il “verde su
    soletta” non ne è che un pallido simulacro.

    Vorrei ricordarLe che in un luogo dove molte generazioni di persone
    hanno vissuto e sofferto esiste un “genius loci” che non può essere
    calpestato per un pugno di soldi. Vorrei ricordarLe che una buona
    Amministrazione programma le spese in modo avve duto e che il fare e
    disfare costa molti sacrifici alla comunità.

    Da ultimo comunico che, per salvare tutti quegli alberi che si vedono nella foto, sono disposta a fare lo sciopero della fame oppure a installarmici sopra, come fanno gli operai sulle gru, e a resistere ad oltranza fino a quando non saranno graziati.

    Con stima

    Piera Colonna

    Togliendo il “con stima” che proprio non
    sopporto più questo rivolgersi con metodi politicamente corretti a dei
    corrotti e aggiungendo la genealogia femminile, ossia la madre e la nonna di Fassino che avranno combattuto alla stregua del padre e del nonno per i beni comuni, voglio aggiungere una citazione presa da un verbale del consiglio comunale di Torino. Questo per spiegare a Fassino e non solo cosa è veramente la politica e la tutela del benessere degli abitanti di una città. 

    Una delle conseguenze positive del fare ricerca storica è quella di trovare affinità e differenze e portarle a conoscenza delle persone che ci leggono in modo da contribuire alla loro presa di coscienza e aiutarli a decostruire e ricostruire il concetto di bene comune e di benessere plasmato da decenni di capitalismo e mentalità individualista spietata. 
    L’intervento risale al 1974 ed ha per oggetto il concetto di casa come diritto inalienabile. E la pianificazione urbanistica della città ne è uan conseguenza diretta:

    “Quartieri cittadini
    come la Falchera e, per altro verso le Vallette, insediamenti come
    quelli di corso Grosseto, chiamato la muraglia cinese, sono esempi di
    una tipologia urbanistica che ha le più gravi ripercussioni sui
    processi di socializzazione e di acculturamento dei residenti, oltre
    a recare loro gravi disagi e danni nelle ore di avvio al lavoro e nel
    successivo periodo di cosiddetto tempo libero, gravemente decurtato e
    deteriorato dalla fatica di percorsi talvolta assai lunghi e scomodi
    per portarsi alla fabbrica e alla casa. L’isolamento di questi
    cittadini è uno strumento che tende alla loro depoliticizzazione,
    legandoli a esigenze elementari, ed estraniandoli da informazioni,
    contatti, possibilità di partecipazione a iniziative pubbliche di
    più largo raggio che non siano quelle strettamente locali e
    familiari. […] Resta reale il fato che la periferia isola i
    cittadini in misura direttamente proporzionale alla carenza di
    infrastrutture e di comodità esistenti distribuendo diversamente le
    opportunità di esistenza, creando squilibri e tensioni, conservando
    nella metropoli modi e stili di vita arretrati, depauperati di beni
    culturali, e tali da eludere, con la falsa apparenza di un bisogno
    non immediato di intervento, le azioni riparative. […] Non è
    meraviglia che le sfavorevoli condizioni ambientali, l’assenza di
    adeguate infrastrutture, la mancanza di servizi, favorisca
    l’analfabetismo in aumento oggi a Torino e tendenze asociali. Ma
    anche là dove non si hanno manifestazioni così gravi di regresso di
    vita civile, la vita dei quartieri è difficile, mancando luoghi
    d’incontro, biblioteche, centri sociali, canali di comunicazione;
    sicché persino dove c’è fervore di incontri e di iniziative si
    stenta a trovare una connessione con i problemi dell’intera
    collettività e si cade talora nel corporativismo”. 
    L’alienazione fisica diventa alienazione psicologica e sociale.
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  • Questioni di peso

    Dopo la parentesi australiana mi sto ributtando negli eventi torinesi.
    Ieri sera presentazione del libro di Gian Enrico Rusconi, Marlene e Leni. Seduzione, cinema e politica, Feltrinelli 2013. Tralascio di provare a chiedermi e a rispondermi perché un professore emerito, politologo e storico arrivato a una certa età e con aria da guascone si metta a scrivere un libro di cinema perché lui non scrive di cinema, scrive un libro su due donne che in un qualche modo sono anche nel suo immaginario e non solo in quello delle Repubblica di Weimar.
    Rusconi fin dall’inizio ammette di parteggiare per Marlene (Dietrich) e lo si capisce bene perché le dedica quasi tutto l’intervento. A Leni rimangono le briciole. A noi (io e mie due amiche) che pazientemente lo ascoltiamo neanche quelle.

    Tuttavia, e direi per fortuna, mentre lui parla ecco la prima illuminazione della serata: la maggior parte delle donne che conosco quando parla in pubblico è agitata, emozionata, si prepara come se il giudizio del pubblico la spedisse direttamente all’inferno o in paradiso. Gli uomini no. Alcuni di loro riescono a far passare in queste presentazioni un misto di supponenza e arroganza da Superuomo. Lo si sente nel tono della voce, lo si percepisce nella comunicazione verbale e non verbale.

    C’è da ragionare su questa suggestione. Le donne ora possono parlare in pubblico ma come ci stiamo davanti a una platea? riusciamo a sostenere un dibattito?

    La seconda illuminazione tratta proprio di questo. Non in generale, ma di come io riesco a sostenere un dibattito. Alla discussione sul libro partecipa anche un professore di cinema dell’Università di Torino, non è un vero e proprio dibattito, perché ognuno ha la sua parte. Chi introduce, l’autore e il professore. Il professore a un certo punto dice che nel cinema americano non ci sono donne produttrici fino agli anni Quaranta. Sobbalzo sulla sedia. Ma come? Partecipo a convegni internazionali che mirano proprio a togliere dall’oblio queste donne e ora lui me le ricaccia con una superbia irritante? Sì perché l’incipit alla segnalazione della mancanza di donne è questo “le mie colleghe femministe si arrabbiano quando dico che non ci sono produttrici, ma è così, non sono io maschilista lo è l’industria del cinema” … Un piccolo pensiero a Jessica Rabbit “Io non sono cattiva, è che mi disegnano così”.

    Visto che non c’è spazio per il dibattito, decido di fare le mie osservazioni fuori. Apriti o cielo. Innanzitutto mi urla contro. Ma casomai sono ignorante, non sorda. Poi la butta sul peso. Non ci sono donne di peso nella storia del cinema americano. Nessuna donna ha prodotto “Via col vento”. Poi la sfida: “se riesci a trovarmi una donna così ti stacco un assegno”.

    E la conversazione va avanti per un quarto d’ora. Il tasto su cui lui batte è che le donne non hanno peso storicamente né nel cinema né nelle altre arti. Inutili le ricerche che ne riscoprono i profili, perché tanto non cambiano la narrazione.

    Stamattina ecco l’illuminazione che ha il sapore del paradosso: come si può chiedere alle donne di avere peso simbolico, se nel contempo si offre loro un immaginario vincente di magrezza sul piano fisico?!?! Quanto il peso simbolico è legato a quello fisico? Ci può essere un conflitto tra questi due pesi? E se ci liberassimo dell’ossessione del peso e della magrezza potremmo acquistare maggior peso sul piano simbolico?

    Ma poi veramente lui pensa di essere pulito? Pensa davvero che nella sua posizione di potere non può contribuire al cambiamento della narrazione del cinema? Se l’industria coeva ha escluso queste donne dal mercato perché lui le deve ricacciare nell’oblio? E poi chi lo dice che queste donne volevano produrre kolossal? Solo una mente patriarcale e capitalista, che crede a una produzione neutrae a una linea di progresso evolutiva lineare dove le donne “finalmente” stanno acquisendo pari diritti e pari opportunità e quindi possono combattere ad armi pari con gli uomini nel mercato (cinematografico).

    Difficilmente si pensa che magari molte donne non hanno voglia di combattere e preferiscono fare altro. E ne godono di più. Come al solito è una questione di desiderio e di libertà.

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  • Fate l’amore non fate la guerra

    Ieri era la giornata delle Forze Armate.
    Ha fatto molto scalpore la presa di posizione del sindaco di Messina, Renato Accorinti, il cui discorso è stato un inno alla pace. Nelle sue parole Renato ha citato il Presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini “Svuotate gli arsenali fonti di morte e riempite i granai fonti di vita!” e l’articolo 11 della Costituzione Italiana dove si legge “L’Italia
    ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri
    popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali
    […]”. 



    Da ieri è un susseguirsi di commenti a favore e contro il gesto. 
    Chi dice che non era il luogo adatto anche se condivide.
    Chi disapprova.
    Chi applaude al gesto e al coraggio. 
    Chi è indignato per il sangue dei tanti uomini e delle tante donne versato per la “nostra” difesa. 

    Il Ministro per la Pubblica Amministrazione e Semplificazione Gianpiero D’Alia commenta il gesto del sindaco come “provocazione demenziale e inopportuna”. 

     Ma come si può condividere questa affermazione? Veramente inneggiare alla pace può essere una provocazione demenziale e inopportuna? 

    Probabilmente sì se lo si fa durante la celebrazione delle Forze Armate. Probabilmente sì se lo si fa durante una cerimonia ufficiale. Se si osa contestare l’ordine costituito. E se lo si fa da dentro quest’ordine. 

    Poi c’è la denigrazione del gesto. Oltre all’offesa. Pare che il sindaco si sia scordato nel suo gesto di tutti quei militari che muoiono nelle missioni di pace! E’ un ingrato. 

    Ma io mi chiedo: come è possibile attuare questa inversione di pensiero? Come è possibile che la locuzione “missioni di pace” renda onorabile l’intervento armato in luoghi dotati di sovranità riconosciuta dallo Stato Italiano? Perché i militari doneranno caramelle, aiuteranno i feriti e faranno sorrisi alla popolazione ma lo fanno sempre armati fino ai denti, con le tute mimetiche e il mitra sotto il braccio! 

    Fino a quando si esalterà paura e violenza la maggior parte delle persone richiederà la protezione delle Forze Armate. C’è bisogno quindi di riequilibrare l’immaginario che ci circonda. Io lo faccio con il libro di una mia amica, Anna Bravo, che si intitola La conta dei salvati. Dalla Grande Guerra al Tibet: storie di sangue risparmiato.

    Riporto un piccolo riassunto del contenuto.
    È un’idea malsana che quando c’è guerra c’è storia, quando c’è pace no.
    Il sangue risparmiato fa storia come il sangue versato.

    Si parla e si scrive molto di guerre, di eccidi e di violenze. È il
    racconto del sangue versato. Ma non saremmo qui se qualcuno non avesse
    lavorato per risparmiare il sangue. Le storie raccontate nel libro mostrano due verità. La prima: il sangue può essere risparmiato anche da
    chi non ha potere, o ha un potere minimo. La seconda: se è importante
    raccontare una guerra, ancora più importante è descrivere come un
    conflitto non è deflagrato. Per capire come si può fare, e con che mezzi.

    Questo è un modo diverso di fare la storia. E di raccontarla.
       

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  • Pulizie di primavera

    Ieri sono tornata da un viaggio in Australia lungo un mese.
    Un viaggio in cui sono riuscita a mischiare lavoro e vacanza.
    Un viaggio in cui per molto tempo sono stata da sola e da sola me lo sono costruita.
    La prima cosa che ho pensato dopo aver svuotato lo zaino è stata: ne approfitto per fare il cambio degli armadi – che ormai è giunto il momento di mettere nei cassetti gli abitini estivi.
    La seconda è stata: approfittiamo di questo momento di grazia creato dal viaggio per sbarazzarmi degli abiti che non metto più, quelli regalati e mai piaciuti, poco indossati, ormai inutili.

    Lo stato di grazia creato dal viaggio con lo zaino in spalla è fondamentale: in quei momenti ti accorgi di quante cose superflue e inutili ci circondiamo.
    Queste cose rendono pesanti e difficoltosi i nostri passi nel mondo.
    Giunge il momento perciò di rimetterle in circolo e per noi di muoverci in modo più leggero, senza quegli impedimenti che molto spesso sono prima fisici e poi mentali.

    Nel libro Vagabonding c’è questo elenco:
    – una guida
    – un paio di sandali
    – articoli per l’igiene personale
    – qualche medicinale essenziale
    – crema protettiva
    – tappi per le orecchie
    – qualche piccolo regalo
    – qualche cambio di vestiti semplici e funzionali
    – un vestito elegante per le occasioni formali
    – un coltello da tasca
    – una torcia
    – occhiali da sole
    – zainetto resistente
    – macchina fotografica
    – scarpe comode e resistenti

    In poche parole: il meno possibile. Punto e basta. Non che vestiti e scarpe non mi piacciano, anzi, ma arrivano certi momenti nella vita in cui bisogna far spazio ad altro (anche ad altri vestiti e scarpe). Creare degli spazi vuoti, avere il coraggio di voltare pagina, per far entrare qualcosa di nuovo.

    Il viaggio all’inizio crea le condizioni del distacco fisico, poi però quando si ritorna cerchiamo di sfruttare questo distacco sul piano mentale. 

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  • Vagabonding

    Tra un paio di giorni parto per l’Australia.
    La scusa del viaggio è un convegno di cinema.
    La vera motivazione è mettermi alla prova … viaggiare da sola in un contesto completamente sconosciuto.

    Qualche anno fa ho comprato, su consiglio di una preziosa amica, un libro altrettanto prezioso
    Vagabonding. L’arte di girare il mondo di Rolf Potts (Edizioni Ponte alle Grazie).

    Ed ora eccomi qui a pensare al mio viaggio. Un mese di quasi totale libertà. Quasi perché al giorno d’oggi è veramente difficile pensare di uscire dal reticolo tecnologico che ci circonda.

    Però saranno giorni da inventare, quelli dopo il convegno.
    Disporrò di una libertà che apre e che intimorisce allo stesso tempo perché non si è più abituati.

    Così per darmi un po’ di coraggio e per condividere questa esperienza, ho pensato di inserire alcune citazioni dal libro.

    Se avete costruito castelli in aria,
    il vostro lavoro non sarà sprecato:
    è quello il posto in cui devono stare.
    E adesso metteteci sotto delle fondamenta.
    Henry David Thoreau, Walden
    Il vagabonding non è soltanto un rituale che include vaccinazioni e valigie da fare, ma è piuttosto la pratica costante della ricerca e dell’apprendimento, dell’affrontare paure e modificare abitudini, del coltivare un nuovo incanto per popoli e luoghi. 



    Viaggiare è il modo migliore
    per salvare l’umanità dei luoghi,
    preservandoli dall’astrazione
    e dall’ideologia.
    Pico Iyer, Why we travel



    Il vagabonding è come un pellegrinaggio senza meta: non è una ricerca di risposte, bensì una celebrazione dell’interrogare, un abbraccio all’ambiguo e un’apertura verso tutto ciò che incrocia il nostro cammino.
     

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  • Kintsugi o dell’arte di recuperare migliorando

    Quando ero adolescente m’è capitato molto spesso di dire a delle persone “non parlarmi più per tutta la vita!” senza avere la minima idea che una vita è fatta di ore, giorni, settimane, mesi e anni. E in questo lasso di tempo le cose cambiano, i rapporti si rivedono, le situazioni si fanno e di disfano.

    E’ incredibile come nell’adolescenza si ha questo senso totale dell’assoluto, un’arroganza mista a ingenuità che ci permette di utilizzare termini come *mai* e *sempre*

    Oggi quando litigo con qualcuno/a, quando litigo anche ferocemente, non riesco a essere così netta. C’è un senso di compassione, chiamiamolo così, che non mi permette di affondare completmente parole e gesti non preoccupandomi dei sentimenti dell’altra persona. Non so se sia meglio o peggio ma è così. Penso a chi vuole bene a questa persona, all’armonia del mondo, al karma e mi fermo.

    Ma c’è una linea sottile tra il subire e il difendersi. E cerco di stare molto attenta a non oltrepassarla.
    Per esempio in questo periodo ho un rapporto burrascoso con una persona che non riesco proprio a gestire. Pare che ogni cosa che faccio non vada bene e questo mi genera sofferenza. Mi genera sofferenza soprattutto il non vederci chiaro in questo rapporto perché l’altra persona sfugge, si sottrae ad un confronto.

    Mi chiedo dopo mesi di tentativi è ora di chiudere, di lasciarsi tutto alle spalle, di accettare un non rapporto (che ha pure il retrogusto di sconfitta per il mio orgoglio) o di provare ancora, di lasciare degli spazi che l’altra persona possa*voglia riempire. Di lasciare il tempo necessario. Anche se non è coordinato con il mio. Lasciare che siano i suoi modi e non i miei a essere agiti …

    Insomma come al solito mille dubbi quando ci si ferma a pensare, poi ieri su facebook mi imbatto in un post che parla di Kintsugi ossia una tecnica giapponese usata nella riparazione degli oggetti.  

    Quando i giapponesi riparano un oggetto rotto, valorizzano la
    crepa riempiendo la spaccatura con dell’oro. Essi credono che quando
    qualcosa ha subito una ferita ed ha una storia, diventa più bello.

    Effettivamente gli oggetti di queste foto sono veramente *più*
    belli. L’oro che ha riempito le crepe conferisce un senso di luminosità
    fantastico che li rende ancora più belli e sicuramente più preziosi. Ma
    anche per i rapporti umani può essere così? 

    Davvero c’è sempre la possibilità di riempire le distanze – anche quelle che ci sembrano incolmabili con dell’oro?
    Davvero abbiamo sempre a disposizione tanto oro quanto ne abbiamo bisogno? 

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  • Osare la libertà… [anche attraverso la ricerca]

    Fare ricerca per me significa approdare in spazi e tempi sconosciuti. 
    Rivedere ciò che credevo naturale e avere la consapevolezza che c’è stato un preciso momento in cui è stato pensato e costruito culturalmente e che solo l’abitudine e il tempo ce lo fanno percepire come archetipico. 
    Osare cambiare il mondo che mi circonda.
    Osare realizzare i miei desideri.
    Combattere le mie paure. 
    Vivere. 

    Per la ricerca che sto seguendo in questo momento, un misto di cinema muto italiano, storia delle donne e archeomitologia femminista, sto leggendo molto materiale sullo sciamanesimo femminile. 

    Ho trovato queste due poesie che sono un tuffo nella libertà    



    Io sono aria
    e l’aria non la puoi richiudere.
    Io sono acqua
    e l’acqua non la puoi contenere.
    Io sono fuoco
    e il fuoco non lo puoi controllare.
    Io sono terra
    e la terra non la puoi imbrigliare.
    Io sono spirito
    e lo spirito non lo puoi domare.
    Io sono figlia della Madre
    aria, acqua, fuoco, terra e spirito,
    impastati nel suo grembo
    e cullata sul suo cuore pulsante.
    Vedi?
    La sua scintilla divina
    brilla in fondo ai miei occhi,
    per quanto spenti essi siano,
    pulsa nel mio cuore
    per quanto triste esso sia.
    E per quanto stanca, ferita,
    umiliata e sconfitta io possa essere,
    da Lei ricomincerò a brillare,
    ed in Lei riprenderò a vivere.

    Petra



    Il cerchio ha il potere di guarigione.
    Nel cerchio, siamo tutti uguali.
    Nel cerchio, nessuno è davanti a voi.
    Nessuno è dietro di voi.
    Nessuno è di sopra di voi.
    Nessuno è di sotto di voi.

    Il cerchio sacro è progettato per creare unità.
    Il cerchio della vita è anche un cerchio.
    In questo cerchio c’è posto per ogni specie, ogni razza, ogni albero e ogni pianta.
    E ‘questa la completezza della vita che deve essere rispettata perchè
    sia ripristinata la salute e il benessere del nostro pianeta.

    Dave Chief, Oglala Lakota

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  • Chi ha paura delle donne libere?

     

    Giorni fa ho avuto un grosso scontro
    con una mia amica. In poche parole si trattava di decidere se
    coinvolgere o meno in un progetto contro la violenza sulle donne,
    un’associazione che ha un grande impatto mediatico, ma che, a mio
    avviso, fa violenza sulle donne. Perché è inserita nel sistema
    patriarcale che è strutturalmente violento. 
    Si tratta di una questione di principio
    molto importante: non ci si può alleare con chi, anche
    inconsciamente, sta nel sistema per cambiare il sistema in cui
    viviamo! 
    Molto spesso, oltre all’opportunismo,
    in molti casi agisce la mancanza di conoscenza storica. In queste
    settimane sto preparando un intervento per un convegno su donne e
    cinema muto intrecciato con l’archeologia femminista. Inserire nel
    mio sguardo sul mondo che mi circonda nelle mie azioni ciò che leggo
    è fondamentale per riconoscere le dinamiche che stanno alla base
    della nostra società, passaggio fondamentale per poi anche solo
    pensare di osare il cambiamento. E limitare la sofferenza che molto
    spesso ancora troppe donne provano quando decidono di darsi la
    felicità. 
    Proprio per questo motivo voglio
    condividere alcuni dei risultati delle ricerche di Nanno Marinatos,
    archeologa greca, sul passaggio da una società matrifocale,
    incentrata sul femminino, ad una decisamente patriarcale. Prendendo
    per esempio Artemide, Marinatos parla di un’involuzione
    dell’immaginario: Artemide passa da dea selvaggia a dea
    terribile e pericolosa
    . Non solo, le sue caratteristiche di verginità
    e non-maternità vengono intese come negative, poiché narrate come
    anti-maternità. Una donna priva di legami e senza prole diventa un
    mostro assassino divoratore di bambini, diventa un’orchessa, una
    strega. La paura verso ciò che non è controllabile – il femminile
    non procreativo come anticipatore della morte – provoca la
    rappresentazione del mostruoso. Non toccata dagli uomini e senza
    alcuna esperienza di maternità, la femminilità diventa
    pericolosamente potente. Perché biologicamente parlando la donna è
    più forte dell’uomo e se la sua potenza non viene canalizzata
    all’interno di un sistema sociale stabile, come la domesticità e la
    maternità, viene percepita come un eccesso di forza inaccettabile
    che deve essere esorcizzata. L’esorcismo si fonda sull’uccisione
    reale o simbolica della vittima per neutralizzare un pericolo:
    uccidere diventa “cosa buona e giusta” se la vittima è
    mostruosa. E date le parentele tra la donna “anti-materna” e il
    mostro, diventa cosa buona giusta sottomettere la potenza (la
    seduzione?) di un soggetto che si mostra come lo scacco della
    domesticità. Lo schema funzionale-razionale – ovvero il sacrificio
    per ottenere sicurezza – diventa uno schema biologico-narrativo che
    assume connotati culturali e dimostrativi e che nel corso dei secoli
    è diventato “naturale”. 
    Quante violenza, quanta sofferenza
    dovremo ancora provare sulla nostra pelle, noi donne, prima di
    riuscire a svincolarci da tutto ciò? Quanto diventa importante, anzi
    fondamentale, il processo di impoteramento, di recupero delle nostre
    vere caratteristiche naturali, del rapporto con la natura, con la
    vita, per guarire, staccarci da questo sistema che ci vuole deboli,
    sottomesse, schi
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  • Sognare audacemente

    Per chi si sta chiedendo se valga la pena sognare.
    Per chi dopo aver deciso di sognare si sta chiedendo quale sogni fare 
    Per chi sta pensando che i sogni siano limitati al tempo notturno
    Per chi ha bisogno di un piccolo incitamento a realizzare i propri sogni …  

    Quando non si facessero più sogni audaci,
    anche le azioni audaci sulla Terra cesserebbero.

    I sogni audaci sono il carburante indispensabile
    per il motore del Fare.

    I sogni audaci sono la miccia d’oro
    per la forza vitale dell’Essere.

    Ciò che non si può sognare
    non si può fare.

    Rialzatevi!
    Non impeditevi di sognare,
    seminate ovunque
    i sogni più belli,
    i sogni più audaci
    sorti dall’Anima con un ruggito.

    Clarissa Pinkola Estés tratto da “Forte è la Donna

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  • Spazio Poesia

    In questi giorni torna molto nei miei discorsi la parola coraggio e delle sue varianti.
    Ho trovato due poesie da condividere con voi intorno a questo tema

    È tempo che tu venga e mi prenda

    Ancora ho paura di legarti con il filo del mio respiro,
    di vestirti con le azzurre bandiere del sogno,
    di accendere fiaccole alle porte di nebbia
    del mio oscuro castello, perché tu possa trovarmi…
    Ancora ho paura di scioglierti dai giorni luccicanti,
    dalla caduta dorata del fiume solare del tempo,
    quando sul volto terribile della luna
    schiuma, d’argento, il mio cuore.
    Alza gli occhi e non guardarmi!
    Calano le bandiere, consumate sotto le fiaccole
    e la luna descrive la sua orbita
    È tempo che tu venga e mi prenda, sacra follia!

    Ingeborg Bachmann

    Il mio cuore non fa che nascondersi
    dietro il mio spirito per pudore:
    io parto per strappare una stella al cielo e poi,
    per paura del ridicolo,
    mi chino a raccogliere un fiore.

    Edmond Rostand – Cyrano de Bergerac

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